Un tempo, il rifugio alpino ed il bivacco costituivano un punto di appoggio e di partenza per l’alpinista che volesse cimentarsi nelle numerose ascensioni che caratterizzano la testata terminale delle nostre valli. Oggi, questo matrimonio tradizionale tra rifugio e alpinista, sembra essere diventato una rarità, anzi, a giudicare dai numeri che riguardano i passaggi degli alpinisti, pare destinato al definitivo divorzio. Il rifugio è semmai oggi diventato spesso una meta fine a sé stessa, un punto d’arrivo e non di partenza. Gli alpinisti sono stati progressivamente sostituiti dagli escursionisti, anch’essi peraltro se non in calo, di certo non in aumento sulle nostre montagne. I pochi frequentatori della montagna “oltre sentiero”, costituiscono ancora quella residua frequenza che caratterizza le vie normali di vette come Il Rocciamelone, la Croce Rossa, L’Uja di Ciamarella e la Levanna Orientale. La ripetizione degli itinerari più classici d’alpinismo conta ormai pochissimi frequentatori, per non parlare delle vie più difficili di cui mancano ripetizioni da anni se non da decenni. E’ l’alpinismo dunque che non interessa più come un tempo? Seppur con le dovute analisi, impossibili in queste poche righe, in parte potrebbe essere anche così, riferendosi soprattutto a un certo tipo di alpinismo. Non esiste una medicina ad esito rapido per ricondurre gli alpinisti sulle pareti delle nostre montagne, ma qualcosa si potrebbe fare. Occorrerebbe per esempio, che al pari di altri gruppi montuosi e di molti loro colleghi, le guide alpine locali si sforzassero un po’ di più nel promuovere ascensioni lungo quelle vie che hanno fatto la storia dell’alpinismo torinese, sia d’inverno che d’estate. Sarebbe bello che le scuole di alpinismo dell’area torinese e soprattutto local-canavesana, riproponessero nei loro corsi delle uscite nelle nostre valli, badando più a certi terreni piuttosto che all’arrampicata. Ma, soprattutto, a mio avviso, andrebbe cambiata una certa politica del CAI che ha finito progressivamente col trasformare certi rifugi in punti di arrivo piuttosto che in punti di partenza, in presidi gastronomici e in alberghetti a cui affibbiare il marchio di qualità, piuttosto che sobri locali che offrono un tetto sulla testa e un “pasto dell’alpinista”.
Sarebbe inoltre auspicabile non dimenticarsi che, la promozione dell’alpinismo, è tra gli scopi originari e nobili di quel sodalizio nato a Torino ormai quasi 150 anni fa. Va da sè, che la soluzione non può nemmeno essere, come qualcuno ottusamente vorrebbe, quella di facilitare le vie classiche con discese veloci più o meno attrezzate o protezioni fisse nei punti di fermata lungo le vie classiche. Questo fatto, purtroppo, è già successo su montagne come l'Uja di Bessanese. Costruire una nuova cultura dal basso dunque, che parta dall'adattamento dell'alpinista alla montagna e non dall'adattamento della montagna all'alpinista. In questo senso forse, il vento "trad" che spira anche nelle nostre valli (seppur qualcuno, molto maldestramente cerchi di dire il contrario), potrà contribuire a determinare un'inversione di mentalità nel prossimo futuro.
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