lunedì 19 dicembre 2011

Sulle spalle dell'orco. Chiodi, nuts, mirtilli e altre storie




Nell’estate del 1991 vagavamo in Val Grande di Lanzo alla ricerca di nuovi settori per arrampicare.
La recente scomparsa di Gian Carlo Grassi ci aveva fatto disertare un po’ il vallone di Sea, dove avevamo la sensazione che nulla mai più sarebbe stato come prima. Con gli amici Stefano Verga e Valerio Pusceddu, ero dunque salito nel bacino di Sagnasse sull’alta sinistra idrografica della valle che costituisce lo spartiacque con la Valle dell’Orco. Qui, la propaggine meridionale di una delle creste del Piccolo Morion (Cresta di Prà Longis), è caratterizzata da alcuni torrioni dove la roccia sembrava invitante.
Eravamo partiti abbastanza tardi e con pochissimo materiale, tra cui 4 spit rock da 8mm con perforatore a mano che intendevamo utilizzare per le soste.
Individuato il punto più debole del torrione di sinistra, quello più evidente ed elegante, iniziammo a salire lungo un sistema di fessure articolate ed erbose, scorgendo più a sinistra un chiodo un po’ datato con cordino. Sembrava trattarsi del ripiego da un precedente tentativo e conoscendo l’inarrestabile frenesia esplorativa di Gian Carlo Grassi, pensammo subito a lui. In effetti, di ripiego poteva trattarsi, poiché il chiodo era sovrastato da una placca molto compatta e parecchio difficile, non proteggibile senza forare la roccia. Eravamo anche consci però, che la parola “ripiego” difficilmente aveva fatto parte del vocabolario del “maestro” e che quindi potesse aver da lì pendolato verso destra, fino a raggiungere la linea che stavamo ora seguendo. Procedemmo con apprensione pensando già alla sfumata “prima”, ma nessun segno di passaggio precedente appariva però ai nostri occhi. Attaccammo la splendida lama fessura che incide la parte medio - alta della torre, fuori misura e non proteggibile nemmeno con i nostri excentrics 10. La scalammo tutto d’un fiato. Poi la fessura s’ammorbidiva e l’arrampicata continuò piacevole fino in vetta, dove però non potemmo attrezzare la sosta perché avevamo esaurito gli spit. Fu giocoforza dunque calarsi con alcuni stratagemmi dagli spuntoni, con conseguente e immancabile incastro della corda. Si arrivò alla base del torrione che già era scuro. Valerio propose di dedicare la salita a Gian Carlo Grassi e battezzammo la via “Ultimo volo”, in ricordo dell’ultimo incontro con il “maestro” avvenuto in autunno nel vallone di Sea.
Fine della prima esplorazione dei Torrioni di Prà Longis, o meglio, inizio una lunga pausa fino all’autunno del 2003, quando vi faccio ritorno con gli amici Paolo Giatti e Francesco Collecchia. Abbiamo al seguito solo materiale tradizionale e intendiamo attaccare lo sperone nel punto più basso, tentando poi di afferrare un diedro che con scalata interna dovrebbe permetterci di raggiungere la sommità del torrione. La roccia si presenta piuttosto cattiva, anche se non mancano tratti entusiasmanti come un fessurino di 6b dove procediamo chiodando in arrampicata, oppure i delicatissimi passaggi sul diedro centrale. Nasce così “Dissapori d’autunno” una bella scalata d’altri tempi nell’era del trapano, la seconda via realizzata su questa parete. Nel mese di luglio dell’anno seguente ho però anch’io il perforatore a batteria al seguito, con il quale intendo attrezzare le soste del nuovo itinerario che ho mentalmente disegnato sul torrione più a destra. Lo abbiamo battezzato “Torrione centrale” dato la posizione rispetto al complesso della struttura. La scalata fila via che è un piacere solo su protezioni veloci, ma, a un certo punto, un compatto e aggettante muretto mi obbliga a mettere uno spit. Sarà alla fine l’unico dell’intera la via e non risolverà nemmeno del tutto il problema psicologico del passaggio di 6a+ (qualcuno dirà poi che è molto di più). In alto ci aspetta una lama entusiasmante, poi una successione di piccoli salti tutti da interpretare. In cima, l’amico Renato Rivelli estrae dallo zaino una bottiglia per festeggiare la prima salita ed il nome al nuovo itinerario è presto dato: “Brindi di mezza estate”. Ad agosto, con l’apporto di Alice Galizia nascono anche la bellissima “Mirtillomania”, con un duro spigolo di 7a, e l’attacco diretto di “Ultimo volo”, due bellissime lunghezze con chiodatura abbastanza lunga di 6a/b.
Il resto è storia più recente, quando, nell’autunno del 2010, traccio sul torrione di destra una bella via in stile “trad”. Si tratta di tre lunghezze completamente in fessure di dimensione variabile, con difficoltà fino al 6b+. La roccia, la vicinanza geografica e la recente “questione del trad”, mi suggeriscono il nome: “Sulle spalle dell’Orco”. Un mondo di potenziali fessure e di nuovi tracciati, si apre così come per incanto nel settore destro della parete, dove è possibile ancora salire delle linee di una certa lunghezza, così come “giocare” su rischiosi hig ball.

Semi-epilogo: una sera, incontro Oliviero Toso presso la palestra indoor di arrampicata Guido Rossa di Torino, uno scalatore che non vedevo da almeno da 25 anni, che mi svela il mistero del chiodo con cordino che avevo attribuito a Gian Carlo. Mi racconta che il chiodo, è in effetti quello lasciato per un pendolo, ma da lui e Franco Benedetti, che piegarono poi verso il sistema di fessure più o meno seguite anche da noi nove anni dopo. Il loro tracciato fu chiamato “Zucchero e mirtilli” facendo riferimento, così come la nostra “Mirtillomania”, alle migliaia di mirtilli disseminati nel bacino del Sagnasse. Dunque, “Ultimo volo” con attacco originale non può essere considerata una “prima”, ma, l’attuale attacco diretto realizzato nel 2004, abbinato alla seconda parte di “Zucchero e Mirtilli” (la prima è un po’ bruttina), rappresenta oggi la più bella combinazione della parete.
E la storia continua.


Accesso: da Pialpetta di Groscavallo seguire la stretta strada asfaltata per i Rivotti, dove si parcheggia al fondo della carrozzabile. Seguire i bollini biancorossi che dalle case s’inoltrano nel bosco di betulle, superano un ripetitore e poi, dopo alcuni risvolti si collegano con la strada degli alpeggi proveniente da Rivotti. Percorrere quindi fedelmente la strada uscendo nel bacino del Sagnasse in vista dei Torrioni di Prà Longis. Nei pressi di una stretta curva a “S”, lasciare la sterrata in prossimità di un grosso ometto e inoltrarsi nel pascolo con grandi massi e vaccinieto. In leggera ascesa (ometti) superare una pietraia con grandi massi e risalire lo zoccolo fino alla base dei torrioni (ore 1,20 da Rivotti).

Le vie

Torrione di sinistra

Dissapori d’autunno: 120 m 6b (5c/A1). Scalata classica su roccia da verificare, impegnativa e suggestiva. Attacco originale nel punto più basso del torrione. In posto qualche chiodo più le soste
( chiodi). Friend fino al n° 3 bd, qualche nut, martello per ribattere i chiodi e cordoni. Discesa in doppia dalla punta.
Mirtillomania: 120 m 7a (6a). Bella via con il secondo tiro veramente bello in un diedro fessurato. Duro singolo in uscita di 7a con un solo spit. Attacco lungo una lama fessurata. In posto 4 spit; una serie completa di friend con 1 e 2 doppi. Discesa in doppia
Ultimo Volo + Zucchero e Mirtilli: 120 m 6b (6a). Bella combinazione con scalata su placca verticale e fessura. Attacco con chiodo giallo. In posto 5 spit; friend fino al n° 5 bd se si vuole proteggere bene la fessura del terzo tiro. Discesa in doppia


Torrione centrale

Brindisi di mezza estate: 180 m 6a+ obbligatorio. Bella scalata con alcune sezioni veramente entusiasmanti. Peccato che l’ultimo tiro sia interrotto da una cengia e roccette erbose. In posto 1 spit e 4 chiodi; friend fino al n° 3 bd. Discesa in doppia



Torrione di destra - settore “clean”

E’ questo un settore dove abbiamo cercato, data la natura del luogo, di eliminare addirittura gli spit alle soste. E’ stato bello così, non lasciare alcuna traccia del proprio passaggio.

Sulle spalle dell’Orco: 70 m 6b+. Scalata in fessura strapiombante e atletica. In posto non vi è nulla, soste da attrezzare. Friend fino al n° 4 bd con 2 e 3 doppi. Discesa a piedi sul lato destro della struttura.

Il raglio delle giubbe rosse: 70 m 6a+. Camino, fessura off width e diedri. In posto non vi è nulla. Friend fino al 5 bd

domenica 30 ottobre 2011

La "democrazia" dello spit e del friend

E' fatto incontrovertibile che il "rischio" sia stato da sempre un valore irrinunciabile dell'alpinismo.
Senza il rischio, nel praticare l'alpinismo e dunque la scalata (intesa in senso più generale), non vi sarebbe quella magnifica componente ideale, spirituale (in senso laico) ed emozionale, che ha reso questa disciplina differente da qualsiasi altro sport. A ciò si aggiunga la gratuità dell'azione, il non abituale confronto diretto con altri (a differenza dell'arrampicata sportiva) e l'apparente inutilità. L'elemento rischio, che si traduce nell'incertezza della riuscita, nella reale possibilità di cadere anche con gravi conseguenze e, addirittura, nella possibilità concreta di morire, rende l'alpinismo una disciplina alla quale non di rado si è tentato di dare delle spiegazioni di ordine prettamente filosofico ed "etico".
Nessuno ci obbliga ad affrontare una difficile via in alta montagna, nè a scalare una parete pericolosa o un high ball. Nessuno ci obbliga. E' una libera scelta individuale che ciascuno fa mettendosi in gioco con l'elemento fisico che la natura ci oppone, tentando di adattarsi ad esso con preparazione psicologica e tecnica. E' possibile anche, viceversa, adattare la montagna alla minore preparazione dello scalatore, eliminando una parte oppure del tutto il rischio. Questo è più difficile in alta montagna, per ovvie ragioni, dove però si possono facilitare un pò le cose, mentre invece è assai più facile nella scalata a media - bassa quota. Dico, "si può", accettando il fatto che, così facendo, dettiamo pesantemente le regole del gioco. Non sto dicendo in questa sede che sia giusto o sbagliato, dico solo che è un fatto innegabile. In questi 35 anni l'arrampicata è cambiata moltissimo, per questioni culturali e tecniche. Chi scalava già alla fine degli anni '70 e nei primi anni '80 sa benissimo che l'approccio psicologico a certe vie era del tutto diverso da oggi. L'adrenalina faceva il più delle volte parte del gioco. Il grado non era necessariamente il valore principale. Lo spit, poco dopo, avrebbe ribaltato il punto di vista elevando il superamento del grado a valore primario, a discapito ovviamente del rischio. Meno rischio uguale a maggiori possibilità di superare difficoltà superiori. Questo succedeva da noi, così vicini alla Francia, m non in molti altri luoghi d'Europa, dove il rischio (che non vorrei ora continuare a chiamare tale prima di essere accusato da qualche padre di famiglia d'inneggiare alla bella morte come Lammer) continuava ad essere valore irrinunciabile ed "etico". Diciamo che la diversificazione della scalata tra free climbing di fine anni '70 e arrampicata sportiva primi anni '80, era legittima perchè si delineavano due discipline differenti, con obbiettivi simili, ma "eticamente" diversi. Infatti, tutti corremmo a scalare anche sugli spit, la maggior parte delle volte senza situazioni di contrasto simili a quelle di oggi. Anzi, molti ribaltarono addirittura il proprio fine della scalata, perchè lo spit permetteva di innalzare i propri limiti con maggiore sicurezza. Lo spit diventò qui da noi fatto accettato e largamente condiviso e, su alcuni terreni, uscendo dal "monotiro" e dunque dal campo stesso della scalata sportiva, lo s'iniziò a piantare in quantità e secondo etiche diverse, il più delle volte del tutto personali. Nessuno rinnega questo fatto. Come non si può rinnegare il fatto che sempre di più ha preso corpo una logica "antisportiva", cioè lo spit si è trasformato da mezzo per superare alte difficoltà, a mezzo per permettere a chiunque di adattare le pareti alle proprie difficoltà, oppure di creare illusori teatri con "scenari d'alpinismo" sulle Alpi, consentendo a molti di praticare un certo tipo di scalata (plaisir). Solo pochi hanno continuato a mettere gli spit con una certa etica e preservando l'obbligatorio, dunque anche un minimo d'ingaggio nella salita conservando parte di quel rischio che è componente naturale della nostra attività. E' giusto, è sbagliato? Ciascuno darà delle risposte differenti in base alla propria sensibilità. E qui ne abbiamo sentite molte! Ma non si neghi che oggi, qualcuno sta cercando di rimettere al centro del gioco "la componente psicologica", che non è machismo, pazzia, o dadaismo della scalata, è atto legittimo e naturale se si vuole considerare ancora l'arrampicare, in montagna o in basso, un qualcosa di "diverso" da un noiso gioco all'omologazione. Dunque, l'azione forte di "educare" prospettata da qualcuno (e da molti contestata), io la tramuto "in possibilità di far riflettere", dimostrando che è possibile recuperare un valore irrinunciabile della scalata necessario anche per "educare" in alpinismo". Non è una lotta allo spit in quanto oggetto tecnico, è una lotta alla sua spesso dimostrabile inutilità, all'ottusità e all'arroganza di chi decide comunque, non di "rispettare", ma di "appiattire" ad uso e consumo di tutti.
Se non si coglie questo fatto non avremo mai rispetto per la "scalata sportiva" ed i suoi terreni d'espressione, ne per quella tradizionale. Perchè spittare una fessura adesso, è un fatto egoistico nei confronti di chi la pensa diversamente, è semplice ottusità per mancanza di sensibilità per un diverso modo di porre alcuni valori nel gesto della scalata. "Educare" significa semplicemente creare una nuova conoscenza, per cui se un domani mi recherò con il trapano sotto una splendida fessura proteggibile, sentirò una vocina che cercherà di farmi riflettere se sia giusto imbrigliarla di spit. Se so usare i friend proverò a salirla, altrimenti la lascerò a chi pratica una scalata diversa dalla mia.


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lunedì 10 ottobre 2011

sabato 8 ottobre 2011

Addio a Walter Bonatti, ultimo "eroe" dell'alpinismo

Anche gli “eroi” fuori dal comune, quelli che nell’immaginario ci paiono immortali, sono destinati a lasciare questo mondo. Così, consumato da una grave malattia, se n’è andato Walter Bonatti, uno dei maggiori protagonisti dell’alpinismo dell’era moderna. Giunto giovanissimo alla pratica della montagna sfruttando anche le sue doti di ginnasta, aveva in breve tempo polverizzato diversi tabù del mondo alpinistico, realizzando, soprattutto nel suo periodo di permanenza a Courmayeur, delle imprese incredibili sulle più vertiginose pareti del Monte Bianco. Come spesso accade agli audaci e a coloro che si espongono in prima persona, riuscendo dove altri nemmeno avevano osato, fu oggetto di invidie, calunnie e scorrettezze, e mentre in Francia riceveva addirittura la “Legion d’onore”, in Italia avrebbe invece dovuto impiegare cinquant’anni per far trionfare la “sua verità” nel controverso caso della spedizione al K2. Forse, molti gli rimproverarono di essere sempre ritornato vivo da quelle tragedie che lo coinvolsero nel momento d’oro della sua carriera, mentre altri suoi compagni rimanevano esamini sulla montagna. Altri lo accusarono, in più di un’occasione, di averli addirittura abbandonati. In verità Walter era un uomo fuori dal comune con un fisico eccezionale, ma soprattutto un generoso che fece ciò che era nelle sue reali possibilità per salvare i propri compagni. Si ritirò dall’alpinismo nel 1965 a soli 35 anni, affermando che dopo l’impresa solitaria sulla parete nord del Cervino avrebbe soltanto potuto “ripetersi”. Si dedicò allora ai grandi viaggi e alle esplorazioni negli angoli più remoti del mondo come inviato della rivista Epoca, divenendo brillante giornalista e scrittore. Pur conservando nell’intimo più profondo un amore eterno per la montagna, qualcosa si era però danneggiato per sempre nel suo pensiero relativo all’alpinismo.
Nel mio ultimo colloquio con lui, in un dietro le quinte al Cinefestival di Trento dell’aprile scorso, al termine di una sua conferenza gli avevo sottolineato quanto il suo giudizio fosse stato eccessivamente severo e ingiusto nei confronti della scalata e dell’alpinismo moderno. Lui, aveva alzato le braccia al cielo e aveva semplicemente sorriso. Ma a Bonatti si poteva “perdonare” tutto.
Agli alpinisti che come me hanno avuto il privilegio di conoscerlo di persona, di ripetere alcune delle sue memorabili vie e di leggere tutti i suoi libri, resta una grande lezione di vita, di determinazione e di stile.
Grazie Walter.

Alpinismo e rifugi nelle Valli di Lanzo: quale futuro

Un tempo, il rifugio alpino ed il bivacco costituivano un punto di appoggio e di partenza per l’alpinista che volesse cimentarsi nelle numerose ascensioni che caratterizzano la testata terminale delle nostre valli. Oggi, questo matrimonio tradizionale tra rifugio e alpinista, sembra essere diventato una rarità, anzi, a giudicare dai numeri che riguardano i passaggi degli alpinisti, pare destinato al definitivo divorzio. Il rifugio è semmai oggi diventato spesso una meta fine a sé stessa, un punto d’arrivo e non di partenza. Gli alpinisti sono stati progressivamente sostituiti dagli escursionisti, anch’essi peraltro se non in calo, di certo non in aumento sulle nostre montagne. I pochi frequentatori della montagna “oltre sentiero”, costituiscono ancora quella residua frequenza che caratterizza le vie normali di vette come Il Rocciamelone, la Croce Rossa, L’Uja di Ciamarella e la Levanna Orientale. La ripetizione degli itinerari più classici d’alpinismo conta ormai pochissimi frequentatori, per non parlare delle vie più difficili di cui mancano ripetizioni da anni se non da decenni. E’ l’alpinismo dunque che non interessa più come un tempo? Seppur con le dovute analisi, impossibili in queste poche righe, in parte potrebbe essere anche così, riferendosi soprattutto a un certo tipo di alpinismo. Non esiste una medicina ad esito rapido per ricondurre gli alpinisti sulle pareti delle nostre montagne, ma qualcosa si potrebbe fare. Occorrerebbe per esempio, che al pari di altri gruppi montuosi e di molti loro colleghi, le guide alpine locali si sforzassero un po’ di più nel promuovere ascensioni lungo quelle vie che hanno fatto la storia dell’alpinismo torinese, sia d’inverno che d’estate. Sarebbe bello che le scuole di alpinismo dell’area torinese e soprattutto local-canavesana, riproponessero nei loro corsi delle uscite nelle nostre valli, badando più a certi terreni piuttosto che all’arrampicata. Ma, soprattutto, a mio avviso, andrebbe cambiata una certa politica del CAI che ha finito progressivamente col trasformare certi rifugi in punti di arrivo piuttosto che in punti di partenza, in presidi gastronomici e in alberghetti a cui affibbiare il marchio di qualità, piuttosto che sobri locali che offrono un tetto sulla testa e un “pasto dell’alpinista”.
Sarebbe inoltre auspicabile non dimenticarsi che, la promozione dell’alpinismo, è tra gli scopi originari e nobili di quel sodalizio nato a Torino ormai quasi 150 anni fa. Va da sè, che la soluzione non può nemmeno essere, come qualcuno ottusamente vorrebbe, quella di facilitare le vie classiche con discese veloci più o meno attrezzate o protezioni fisse nei punti di fermata lungo le vie classiche. Questo fatto, purtroppo, è già successo su montagne come l'Uja di Bessanese. Costruire una nuova cultura dal basso dunque, che parta dall'adattamento dell'alpinista alla montagna e non dall'adattamento della montagna all'alpinista. In questo senso forse, il vento "trad" che spira anche nelle nostre valli (seppur qualcuno, molto maldestramente cerchi di dire il contrario), potrà contribuire a determinare un'inversione di mentalità nel prossimo futuro.

venerdì 2 settembre 2011

LI FOL DAL ROTCHESS - LA GRANDE AVVENTURA ESPLORATIVA SULLE MONTAGNE DELLE VALLI DI LANZO


Incompresi o ammirati, blasonati o talvolta addirittura denigrati, gli alpinisti e le loro imprese hanno accompagnato le fortune turistiche valligiane, contribuendo altresì in modo significativo alla conoscenza della geografia delle terre alte, fino ad allora ignorata o mal compresa.
A distanza di quasi due secoli molti sono coloro che ogni anno si riversano sulle montagne delle Valli di Lanzo, per percorrere le vie che hanno fatto la storia dell’alpinismo torinese, mentre l’esplorazione rimane ancora prerogativa di pochi.
Questo libro non vuole essere l’opera omnia dell’alpinismo delle Valli di Lanzo, ma si prefigge piuttosto di esaminarne nel tempo i tratti storico – sociali ed etico - filosofici, attraverso il racconto in chiave giornalistica delle sue tappe fondamentali. Conoscerete così le gesta e le motivazioni di un manipolo di appassionati , socialmente disomogenei, che hanno fatto di questa montagne il loro mondo.
Pur utilizzando l’impianto tipico di un libro di storia, il testo si prende la libertà di un’analisi critica per la prima volta basata sull’oggettività della difficoltà tecnica, smontando il mito di alcune salite che sono state eccessivamente celebrate dalla storiografia tradizionale delle Valli di Lanzo. Per la prima volta, ecco una pubblicazione scritta da un’alpinista, che oltre ad aver aperto numerose vie nuove su queste montagne, ha ripetuto praticamente tutte quelle considerate “essenziali” per la storia alpinistica subalpina. Non solo, ma la sua attività di ripetizione sui più famosi massicci montuosi delle Alpi, non solo occidentali, gli ha permesso di valutare in modo equilibrato le “imprese” compiute sulle montagne delle Valli di Lanzo e di equipararle al resto dell’alpinismo italiano nelle corrispettive epoche.
E’ storicamente radicata nell’ambiente torinese una soggezione per i miti del passato, una soggezione che ha spesso imbrigliato e alienato i giovani alpinisti. Questo ha determinato un’involuzione più che un’evoluzione. Ma sulle nostre montagne, negli ultimi vent’anni, abbiamo dimostrato che non è affatto così. L’alpinismo si fa sulla difficoltà in roccia, in ghiaccio e su misto, non di “corsa” come una certa scuola di pensiero oggi vorrebbe far credere. Le nuove tendenze stanno dimostrando che basta cambiare le regole del gioco per trovare delle strade possibili, e molti giovani rifiutano la banalizzazione della montagna e dell’arrampicata sancita dalla logica “plaisir” rivendicando esplorazione, avventura e incertezza della riuscita.
Se si guarda con attenzione, il grande alpinismo “di difficoltà” sulle nostre montagne è solo agl’inizi



L'UIA EDITRICE - 14 EURO




domenica 31 luglio 2011

giovedì 9 giugno 2011

Trad Climbing





Nel mondo dell’arrampicata contemporanea, già sufficientemente variegato e ricco di distinguo tecnico-etici, tiene banco in questi ultimi tempi la “questione” della scalata trad.
Quest'abbreviazione, in sintonia con i consueti provincialismi della cultura nostrana, ormai solidamente esterofila, sta per traditional climbing ovvero “arrampicata tradizionale”. Con essa normalmente viene intesa l’arrampicata che non fa uso di protezioni fisse, dal momento che eventuali punti d’assicurazione intermedi vengono rimossi durante la scalata. La confusione, a questo punto, è già enorme per chi magari arrampica o pratica alpinismo da tempo, figuriamoci per colui che intenda da neofita avvicinarsi alla scalata. Avendo attraversato 30 anni di arrampicata ho avuto modo di vedere come questa si sia evoluta e trasformata, passando attraverso eventi anche traumatici in senso storico e, non di rado, quanto sia stata soggetta a equivoci e mistificazioni. Ciò ha determinato pieghe ed assetti diversi nel modo di concepire la scalata che, proprio perchè non affrontati con la dovuta considerazione culturale, hanno poi condotto a fenomeni di degenerazione che oggi sono sotto gli occhi di tutti. Ora, alla luce di questo fatto, risulta necessario più che mai non incorrere in erronee interpretazioni o in maldestre sovrapposizioni storico-culturali, tentando invece, di avvalerci degli strumenti critico razionali che sono ampiamente a nostra disposizione. Ricorrendo all’antropologia culturale, và detto che per tradizione s’intende generalmente quell’insieme di usi, di costumi e di relativi valori, che nel tempo vengono appresi, conservati, modificati e tramandati alla generazione successiva. Dunque, apparentemente, staremmo parlando nel nostro caso di una scalata che fa riferimento alla “tradizione” e, di conseguenza, verrebbe automatico pensare che essa sia riconducibile alla “nostra tradizione”.
Essendo la storia della scalata relativamente giovane, nonché prevalentemente evolutasi nel nostro continente e soprattutto in ambiente alpino (da cui il termine “alpinismo”), potremmo ragionare legittimamente in termini “europei”. La storia dell’alpinismo è quindi di per sé un po’ cosmopolita, proprio perché i suoi protagonisti, europei, hanno contribuito in due secoli a scriverla apportando ciascuno un po’ delle proprie culture ed esperienze tecniche, diverse, in quanto maturate su terreni morfologicamente differenti. La “questione del trad”, come mi sia consentito definirla in questa sede, ha avuto come luogo d’innesco mediatico la Valle dell’Orco, anche se, oggettivamente, si è già imposta all’attenzione degli arrampicatori in numerose realtà geografiche italiane. Per quanto concerne la Valle dell’Orco, vi si può leggere in prima battuta un preciso significato: e’ in Valle dell’Orco che, nei primi anni ‘70, con l’avvento del “Nuovo Mattino” ha avuto origine l’”arrampicata moderna” torinese. Dunque, sarebbero qui le origini della nostra tradizione?
In realtà non lo sono, perché, a modo suo, anche il free-climbing nostrano ha un suo trascorso che affonda le radici nelle “scuole di arrampicamento” teorizzate da Adolfo Hess nei primi del ‘900. Le protezioni “tradizionali” utilizzate durante l’arrampicata, erano costituite da chiodi da piantare nelle naturali fessure della roccia, oppure, successivamente, da cunei di legno da infiggere a forza nelle spaccature più larghe. Il chiodo da roccia fu a lungo osteggiato dai “puristi” in quanto ritenuto elemento banalizzante della scalata, fino a quando non comparve il chiodo “a espansione/pressione”. Questo chiodo non utilizzava le fessure naturali bensì veniva infisso, previa foratura, quando la roccia risultasse compatta. Si aprì come sappiamo, soprattutto nelle Alpi orientali, il periodo delle “direttissime”, con la reale possibilità che qualsiasi parete potesse essere superata.
Per questioni più morfologiche che “tradizionali”, il suo uso sulle nostre Alpi occidentali rimase abbastanza limitato. Tuttavia fu proprio forando la roccia delle valli torinesi che, alla fine degli anni ‘60 e nei primi anni ’70, vennero realizzate delle vie di arrampicata diversamente “non proteggibili” in alcune loro sezioni. Si tratta di vie celebri come la “Via del Naso” al Bec di Mea in Val di Lanzo, oppure “Tempi moderni” e “Sole nascente” al Caporal, in Valle dell’Orco. Entrate di diritto nella storia dell’arrampicata piemontese, esse sono dunque parte integrante della nostra “tradizione”. In quegli anni la comunità alpinistica subalpina venne a contatto culturalmente e tecnicamente con il mondo dell’arrampicata anglosassone. Lo fece attraverso le analisi e i saggi di Gian Piero Motti, ideologo e fautore del “Nuovo Mattino”, e grazie alla presenza a Torino dello scozzese Mike Kosterlitz.
Fu quest’ultimo, proprio in Valle dell’Orco, ad introdurre tra gli arrampicatori subalpini i “blocchetti a incastro” (nut) che permettevano di proteggere le fessure in modo clean, cioè senza fare ricorso a chiodi e martello. L’assimilazione di quelle novità tecniche non volle però dire qui da noi il ripudio del chiodo tradizionale e neppure di quello a pressione, che lo stesso Kosterliz aveva peraltro usato proprio durante la prima salita della via “Sole nascente” alla parete del Caporal. Motti s’interessò particolarmente alla realtà californiana, colorita da un pragmatismo all’americana che rendeva evidente quanto il “nostro alpinismo” fosse stato menomato dal decadentismo retorico, che aveva addirittura affossato l’epica del suo passato storico. Gli americani, non essendo ancorati al retroterra culturale alpinistico mitteleuropeo (che di fatto ne aveva rallentato l’evoluzione tecnica), scalavano per il piacere di scalare, pur riconoscendo in quell’esperienza dei risvolti dal valore introspettivo. Al di là dell’interesse per le “novità filosofiche”, Motti analizzò anche gl’indubbi progressi tecnici degli americani, che dopo un periodo di artificialismo e di chiodatura esasperata, avevano riscoperto un’idea di “arrampicata libera” con il minor numero di protezioni fisse possibili.
L’interesse per l’idea californiana, non era però suggellato da una volontà di emulazione. Ben conscio del grande valore della “nostra tradizione alpinistica”, quanto assai critico con alcune “degenerazioni” e “rigidità” rischiose dell’alpinismo americano, l’ideologo – alpinista torinese intendeva con il “Nuovo Mattino” aprire una fase culturale nuova. Essa avrebbe dovuto comportare momentaneamente la rinuncia della vetta, dimostrando che si poteva vivere una dimensione “spirituale” importante, non necessariamente essendo legati a un tradizionale valore simbolico. Non che non fosse riconosciuto un “sentimento della vetta”, ma non se ne ammetteva per ragioni ovvie l’esclusività. Dunque, la “filosofia dell’altipiano”, sottolineando come la grande avventura si potesse vivere anche su una parete di fondovalle in modo “gioioso” e assi lontano dagli stereotipi ideal-tradizionali. Il “Nuovo Mattino” non voleva affatto rinunciare all’alpinismo e neppure alla “vetta”, ma intendeva farvi ritorno con uno spirito nuovo. “Tecnicismo” e “spiritualità” sarebbero divenute, come è giusto che sia in alpinismo, valori complementari. Al “sentimento della vetta” pur bello ed esclusivo a suo modo, si sostituiva, come io lo definisco da tempo, il più laico “sentimento della meta”. Ci fu chi travisò però questo messaggio, sia per scarsa sensibilità, sia in totale malafede. Ancor oggi, non mi stupisce che in certi cenacoli culturali il “Nuovo Mattino” sia considerato in qualche modo addirittura l’innesco di una genesi voluta della “sportivizzazione della scalata”. Fatto è che dall’”equivoco” del “Nuovo Mattino”, scaturì una corsa all’arrampicata fine a sé stessa. A partire dalla seconda metà degli anni ’70, in particolare, andò affermandosi sempre di più un’idea di arrampicata libera (free-climbing), cioè senza l’ausilio di mezzi artificiali (come i chiodi) in funzione di appiglio e tesa a superare sempre maggiori difficoltà. Ciò fu reso possibile anche grazie alla diffusione delle scarpette con la suola di gomma liscia ed aderente.
L’evoluzione dell’arrampicata fu rapida e pronta ad assimilare nuove influenze, specialmente quelle geograficamente più vicine a noi. Lo stesso chiodo a pressione, mai del tutto ripudiato, ebbe una sua evoluzione trasformandosi in un tassello più sicuro e più adatto alla necessità di spingere ai massimi limiti l’arrampicata libera: lo spit. Poco importava se questo voleva dire l’abbattimento della componente psicologica dell’arrampicata con la notevole riduzione del rischio, permettendo ancora una volta di salire praticamente su qualsiasi parete priva di fessure naturali. A differenza del vecchio chiodo a pressione/espansione concepito per la scalata artificiale, lo spit era ritenuto in qualche modo più legittimo perché funzionale alla scalata “libera”. La diffusione di itinerari protetti sistematicamente con questo mezzo fu enorme, anche se alcuni (pochi) continuarono a vederlo con diffidenza, così come in alcuni luoghi una sorta di “pudore tecnico” ne limitò l’uso. I grandi fuoriclasse francesi, ma anche tedeschi, italiani e addirittura inglesi, facevano scuola e contribuivano alla massificazione dell’arrampicata, che non tardò molto a diventare “sportiva” a tutti gli effetti con le prime competizioni di Bardonecchia nel 1985.
Le pareti attrezzate per la pratica di questa disciplina sono proliferate a dismisura in tutta Europa e soltanto nel mondo anglosassone, specialmente in Inghilterra e in certi siti degli Stati Uniti, si è preservato un forte zoccolo tecnico - culturale di arrampicata clean, cioè senza l’uso di protezioni fisse come gli spits o addirittura senza i “tradizionali” chiodi da roccia ( etica hammerless). Il termine traditional climbing o trad climbing è dunque nato in Inghilterra nei primi anni’80 per distinguere un’arrampicata clean da quella sportiva su protezioni fisse, detta appunto sport climbing.
Considerando la ciclica “reazione opposta” alla massificazione e all’eccesso di certi fenomeni, era logico che anche qui da noi la minoranza mai sopita dei detrattori dello spit trovasse il momento giusto per alzare la voce, motivata dunque dal dilagare della roccia “bucata” e “violata” in alcuni siti ritenuti in qualche modo “tradizionali”. Non è dunque un caso che ciò sia avvenuto proprio in Valle Orco, dove lo spit, seppur presente, non è mai stato troppo di casa. Una “riserva indiana” quindi, da cui far partire in qualche modo la campagna tecnico-ideologica della “scalata trad”. Ora però se ci rifacciamo come è doveroso al significato antropologico di “tradizione” espresso all’inizio di questa breve dissertazione, apprendiamo che per ragioni ovvie la nostra “tradizione arrampicatoria” è di fatto una miscellanea di influenze che si sono evolute e che sono state tramandate. Non è certo una tradizione hammerless, perchè chiodi tradizionali o “a espansione”, ne hanno scandito i momenti storico-evolutivi.
Il “Trad climbing meeting” che si è tenuto in Valle dell’Orco, ha però fornito una chiara indicazione di che cosa la nuova generazione intenda per trad, fugando ogni dubbio di una confusione con l”arrampicata tradizionale”.
Si tratta di una scalata in “ottica britannica”, dunque clean, su strutture generalmente brevi (10-30 m). In questa “nuova disciplina” vi è però molto dell’arrampicata sportiva a livello di preparazione specifica e di “obbiettivo”, come il superamento della difficoltà, pur rimettendo in primo piano la componente psicologica. La risoluzione di alcuni brevi tratti di scalata, beneficia inoltre dell’esperienza ricavata dalla pratica del bouldering. Nessuna confusione dunque, quanto piuttosto una possibile difficoltà nel gestire il rapporto di questo “spirito trad” con le vie della “nostra tradizione”, soprattutto quando si parli di riattrezzamenti.
In senso positivo, lo spirito trad può essere inteso come il legittimo tentativo di difendere certi luoghi da una possibile contaminazione delle “degenerazioni” dell’arrampicata sportiva, dall’omologazione e dall’uso dello spit plaisir come è già successo in molti luoghi.
Mettere uno spit laddove si possa invece inserire una protezione a incastro, diventa dunque un’azione inutile se non illegittima, soprattutto se ciò avvenga in certi luoghi dove si è preservata un’arrampicata “non sportiva” nel senso tradizionale del termine. La “questione del trad”, potrebbe quindi diventare semplicemente una battaglia di buon senso che, proprio per ragioni “tradizionali”, non può partire però dalla messa al bando totale e definitiva dello spit e del chiodo, ma deve limitarne invece l’uso esclusivamente nei casi riconoscibili come “legittimi”. Questo vuol dire, nel caso di riattrezzamenti di vecchie vie, un uso dello spit solo dove la roccia sia già stata bucata in origine (chiodi a espansione, vecchi spitrock, ecc..), oppure in sostituzione di certi chiodi la cui continua ribattuta – schiodatura comporterebbe un danno reale per la roccia. Combattere una battaglia assoluta e preconcetta contro lo spit, significherebbe solo assumere un atteggiamento talvolta antistorico e addirittura “anti - tradizionale”. Si evince dunque la necessità di stabilire una sorta di “anno zero” e una proiezione verso il “nuovo”, dove, a un’evidente possibilità di modificare l’angolazione con cui ci si può avvicinare alla pratica dell’arrampicata, non faccia eco una stupida e inutile lotta iconoclasta al passato, fatto che di certo non aiuterebbe la diffusione di una nuova “consapevolezza”.
Se la nuova generazione di arrampicatori saprà dialogare con quella del “passato”, io vedo nel trad climbing odierno un ventaglio di benefici che si rifletteranno, come è logico che sia, anche in alpinismo.
Dal punto di vista meramente “tecnicistico”, la rinuncia allo spit in certi casi potrà essere letta come una rinuncia alla garanzia della riuscita, a livello pratico e psicologico (soprattutto tra gli scalatori neofiti e di livello medio-basso). Sarà così possibile riporre al centro del “gioco” l’auto -consapevolezza e la costruzione di una crescita tecnica graduale e responsabile, caratterizzata anche e soprattutto dalla rinuncia.
Dal punto di vista più “idealistico”, la filosofia trad rilancia il gusto della scoperta, dell’esplorazione e, l’incertezza della riuscita, sottolinea l’importanza di quella dimensione dell’avventura che lo spit facile, in basso come in alta montagna, aveva rischiato di menomare e talvolta addirittura di azzerare. Una dimensione dell’avventura legittimata dall’idea di “spazio per la fantasia”, con in primo piano il “sentimento della meta”. E poco importa, a mio avviso, se detto sentimento sarà costruito su pochi metri di fessura proteggibile, sul versante di un masso su una grande parete alpina.

lunedì 21 marzo 2011



Il Vallone di Sea - Climbing Meeting 2011 si terrà quest'anno nei giorni 29-30 e 31 luglio, con la collaborazione del CAAI-Gruppo Occidentale, del GISM - Delegazione del Piemonte e della Valle d'Aosta e della S.A.S.P.(Società Arrampicata Sportiva Palavela-Torino).

Vallone di Sea Climbing Meeting 2011

Programma

Venerdì 29 luglio:

Ore 10,00: ritrovo presso la piazza Girardi di Forno Alpi Graie (Groscavallo)
Registrazione dei partecipanti, consegna della maglietta ufficiale del raduno e delle relazioni dei settori (costo iscrizione 10 Euro). Partenza per i settori di scalata del vallone.
Ore 21,30 – Albergo Savoia di Forno Alpi Graie: La parete terminale della Val Grande di Lanzo - proiezione di Marco Blatto e Lino Fornelli. (a cura del GISM)

Sabato 30 luglio
Ore 9,00: ritrovo presso la Piazza Girardi di Forno Alpi Graie (Groscavallo)
e partenza dei partecipanti per i settori.
Per eventuali accompagnatori o partecipanti che non arrampicano, è prevista un’escursione guidata.
Ore 18,30 – Cantoira: Albergo Ristorante Cantoira - caffè letterario con presentazione del libro “Lj Fol däl rotchéss – la grande avventura esplorativa sulle montagne delle Valli di Lanzo”. (a cura del GISM)
Ore 21,00 – Cantoira - presso il Salone delle Feste: Consegna del 3° premio Nazionale d’Alpinismo “Paolo Armando”
Ore 21,30: conferenza – proiezione con la partecipazione di alcuni protagonisti dell’arrampicata nel vallone, dal titolo “Vallone di Sea: un mondo di pietra” (A cura del CAAI-GISM)

Domenica 31 luglio

Ore 9,00: ritrovo presso la piazza Girardi di Forno Alpi Graie, quindi a Balma Massiet per le ore 10. Prove di bouldering sui passaggi storici del circuito “Polvere di Stelle” e sui nuovi blocchi preparati dai tracciatori della S.A.S.P. Scalate trad e non solo sulle “short” della Reggia dei Lapiti.
Ore 16: fine ufficiale attività
Ore 18,00 – Cantoira, presso una sala dell’albergo Cantoira: conclusioni del raduno. Relatori da confermare.
Ore 19,00: chiusura raduno e cena tutti assieme presso l’Albergo Cantoira con menù tipico delle Valli di Lanzo