Certi detrattori del GISM e della sua storica battaglia “ideale”, ci hanno spesso descritti come dei conservatori un po’ nostalgici del tempo passato. Ora a parte il fatto che è tutto da dimostrare se questo sia vero, personalmente non vedo alcunché di negativo nella “nostalgia”, in quanto ciascuno è libero di relazionarsi come meglio crede rispetto al proprio passato.
La nostalgia, al pari del bel ricordo, della gioia, del dolore, della paura, dell’esaltazione, è un sentimento, e noi che siamo alpinisti e scalatori, abbiamo provato questi stati d’animo e siamo fieri di poter dire che il “sentimento” è un punto fermo del nostro andare per monti.
Dunque, chi ci accusa di essere dei conservatori non s’accorge semmai che siamo i depositari del medesimo sentimento che certamente albergò nell’animo del più antico proto - alpinista. Suggerirei anzi a costoro di accantonare per un attimo i giudizi critici, di scrutare con attenzione nell’intimo e di scoprire il significato ontologico del proprio “essere alpinisti”.
L’essere “conservatore” viene spesso contrapposto all’essere “rivoluzionario”. Ma che cos’è la rivoluzione? Il termine viene dal latino revolutio che significa “rivolgimento”, ovvero un mutamento improvviso e profondo che comporta la rottura di un modello precedente e il sorgere di un nuovo modello. L’alpinismo stesso, per esempio è stato rivoluzionario per quanto concerne una nuova consapevolezza del paesaggio alpino e della montagna.
Nei suoi oltre due secoli di storia, si sono avvicendate rivoluzioni tecniche che si sono inevitabilmente accompagnate a delle rivoluzioni etico-filosofiche. Al tecnicismo eccessivo, per esempio, hanno fatto eco da sempre delle forti reazioni uguali e contrarie, tant’è che se dovessimo rappresentarne su di un grafico l’andamento fenomenico, ne otterremmo una curva sinusoidale.
Un’idea è dunque “rivoluzionaria” quando è figlia del contesto storico-sociale in cui si manifesta, quindi, può diventare paradossalmente un’idea conservatrice qualora questo contesto venga a mutare sensibilmente.
Il fatto che noi, oggi come ieri, difendiamo l’alpinismo come fatto etico, ideale ed artistico, può dunque, all’analisi dell’evoluzione dell’alpinismo degli ultimi 25 anni, apparire più che rivoluzionario.
E’ importante però che il nostro sodalizio sappia veramente concorrere al dibattito etico-filosofico odierno in materia d’alpinismo, esprimendo una certa dinamicità del pensiero e delle idee cogliendo realmente la novità del nostro messaggio, rifuggendo il rischio di rimanere arroccati con un certo immobilismo su tematiche esclusive, fatto che realmente rischierebbe di alimentare gli stereotipi da parte di qualche osservatore poco accorto.
Gli ultimi due anni, per noi, sono stati caratterizzati da un intenso lavoro, guidati e ispirati dal nostro Presidente Spiro Dalla Porta Xydias che ha saputo, con intelligenza e onestà intellettuale, comprendere l’importanza dell’inserimento del nostro gruppo nelle complesse pieghe dell’alpinismo di oggi.
E’ stato necessario innanzitutto un lungo lavoro di analisi critico-razionale degli ultimi 30 anni dell’alpinismo, un lavoro che si è articolato attraverso lo studio ma anche attraverso confronti, tavole rotonde e dibattiti. Si è sentita l’esigenza soprattutto di fare chiarezza in merito a certi movimenti di pensiero, da un lato accusati di essere la causa della progressiva sportivizzazione dell’alpinismo e che, dall’altra, sono stati strumentalizzati da un’eccessiva quanto errata agiografia dei personaggi che ne sono stati protagonisti.
Si rivalutano così oggi, sotto una luce diversa e smascherando definitivamente una sorta d’inganno, dei genuini tentativi del passato di difendere una dimensione spirituale della scalata ben al di là della vetta stessa, che per il nostro GISM ha da sempre assunto un valore simbolico.
Si comprende allora in modo più chiaro la vera genesi della sportivizzazione dell’alpinismo, mutuata in questi ultimi decenni anni dal tecnicismo esasperato ed da un conseguente inaridimento “sentimentale”. E, si badi bene, non si tratta affatto come qualcuno vorrebbe invece trasmettere, di essere contrari alla cosiddetta “arrampicata sportiva”. Per fugare qualsiasi dubbio, chi scrive, è anche un tecnico di questa disciplina sportiva che non intende affatto avere la pretesa di sostituire in alcunché la scalata alpinistica o l’arrampicata su terreno naturale.
E’ invece importante comprendere quali siano stati, soprattutto negli ultimi due decenni, gli eccessi e le degenerazioni di un “vento sportivo” della scalata che, assimilato dalla massa media dei praticanti, ha decretato una progressiva banalizzazione della pratica della montagna, con la pretesa quasi dovuta, che questa dovesse essere adattata alle capacità medie del singolo.
Questo modello di pensiero che potremmo tradurre con la “montagna plaisir”, è figlio di una società che ha diffuso caduchi modelli di benessere sotto la falsa prospettiva che la tecnologia possa risolvere tutto. Sicurezza in montagna in primis. L’alienazione del rischio e dell’incertezza della riuscita attraverso l’accanimento del mezzo tecnico, rischiano così per diventare i pericolosi elementi che, oltre ad un inaridimento “spirituale”, aprono le porte a quella montagna della privazione delle libertà e dei divieti che oggi, sempre di più stiamo conoscendo.
Veniamo così privati della nostra sensibilità creativa, della possibilità di scegliere il modo di confrontarci con la montagna; spesso siamo accusati dai media e da un’opinione pubblica sempre più “conservatrice” di essere solo dei romantici che ammiccano alla bella morte. Quasi il romanticismo, poi, fosse un disvalore e noi non fossimo semplicemente degli appassionati che ritengono ancora che il “sentire” (il sentimento) sia un elemento importante e insostituibile per tramutare l’avventura in montagna una bella esperienza interiore.
Ma, oggi, la deità del grado e del mezzo tecnico che mitiga il rischio a favore della prestazione sportiva, comincia a mostrare segni di cedimento. Si rivendica nuovamente una pratica della scalata che parta dalla sensibilità interiore dell’individuo, ponendo in primo piano l’incertezza della riuscita e la montagna come reale “spazio per la fantasia”.
E’ il concetto del “sentimento della meta” dove l’elemento centrale diviene l’esperienza interiore ed emotiva, non più la volontà di affermazione personale o il consumo “meccanico” della parete e della montagna. E non si temano pericolosi e insidiosi fraintendimenti che qualcuno di noi, non ancora perfettamente consapevole, può rischiare di scorgere in questa nuova sensibilità.
Come già scrisse Gian Piero Motti più di 35 anni fa, soltanto ciò che non è veramente sacro può essere dissacrato.
Alcuni giorni fa mi sono recato ad esplorare una zona di massi con un giovane praticante di bouldering, avvezzo soprattutto al mondo dell’indoor e della competizione. Sul far della sera, dopo aver tracciato numerosi passaggi nuovi, ho chiesto lui cosa pensasse di quella giornata. Ero curioso di sapere in quale misura il contesto del paesaggio circostante, per me di particolare forza evocativa, avesse in lui suscitato un qualche sentimento rubando un po’ d’attenzione al fine. “ E’ stata una giornata visionaria” è stata la sua risposta.
Ebbene, in quelle parole, io vedo la certezza che non solo un’altra visione dell’alpinismo e della scalata è possibile, ma quanto il sentimento sia un valore irrinunciabile. E questo perché la nostra sensibilità non può prescindere dalla percezione dell’elemento naturale qualunque esso sia, anche nel pieno dell’azione.
Non importa se stiamo raggiungendo una vetta, un colle, percorrendo una parete senza vetta, o scendendo una parete con gli sci. Parafrasando ancora una volta Motti, “l’importante non è affermare sé stessi ma vivere sensazioni più profonde”.
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